L’isola dei cani, la distopia di Wes Anderson

In L’isola dei cani, la messa in scena quadrettistica tipica di Wes Anderson si incontra con il Giappone. Il risultato è una pellicola in stop-motion composta da inquadrature frontali, miniature che si muovono e l’essenzialità geometrica nipponica.

L’isola dei cani, la distopia di Wes Anderson

La presenza del Giappone però non equivale ad una sua rappresentazione nel film. L’isola dei cani infatti prende ispirazione dall’iconografia, dal teatro no, dai manga e dagli anime, ma non va oltre. Il Giappone viene omaggiato con una grande citazione, un rimando visivo, ma non ha un ruolo da protagonista. Ciò non accade per mancanza di una conoscenza approfondita, quanto per la decisione cosciente di voler spingere lo spettatore a carpire l’umore nipponico, senza perdere la propria anima Andersoniana.

La storia prende forma nell’arcipelago giapponese, precisamente nella città fittizia di Megasaki, città in bilico tra il modernariato e il gusto passatista, nell’anno 2037. A causa di un’influenza canina che rischia di diffondersi e contagiare gli abitanti della città, il sindaco Kobayashi ordina di far confinare tutti i cani in un’isola utilizzata come discarica. Il primo cane ad essere mandato in esilio sarà Spots, il cucciolo del pupillo del sindaco, Atari. Il dodicenne aviatore, una sorta di piccolo principe ferito alla testa da un pezzo di metallo decide di andare contro alle decisioni dello zio e parte per salvare Spots. Verrà aiutato nella sua missione da un gruppo di cani randagi e malandati che popolano l’isola.

L’isola dei cani, la distopia di Wes Anderson

Chief (doppiato nell’originale da Bryan Cranston) fa parte di quel gruppo di randagi; è diffidente, un corpo cosparso di cicatrici e dal pelo apparentemente nerissimo. Mentre i suoi compagni a quattro zampe hanno deciso di aiutare Atari Kobayashi, lui non ne è poi così sicuro. È abituato a mordere e ringhiare, fa il bastian contrario con gli altri autoescludendosi. Ma dentro di lui qualcosa scatta grazie all’incontro con Atari, e sarà proprio lui a guidare la missione di salvataggio di Spots.

L’isola dei cani, la distopia di Wes Anderson

Il film vede una tecnica mista continua, tra disegno animato sugli schermi televisivi anni ’60 in bianco e nero e la tecnica dello stop-motion, già utilizzato da Wes Anderson in Fantastic Mister Fox. Ma questo mix non si limita alla sfera visiva, ma arriva a contagiare la scelta linguistica. Gli esseri umani infatti parlano in giapponese, mentre i cani parlano in inglese; per far dialogare i due universi si utilizza un commento di traduzione simultanea in diretta. Tutto ciò crea un distacco tra i due mondi, una fiaba distopica lost in translation.

L’Isola dei cani ha ricevuto molte nomination e riconoscimenti, tra cui due nomination agli Oscar 2019 come Miglior colonna sonora originale e Miglior film d’animazione. È vincitore del Berlino International Film Festival per Miglior regia.

Torna in alto